
«Modica era, da sempre, una grande piazza del volley e mio padre un super appassionato di sport. Io avevo 5 anni ed ero già abbastanza alta. Allora lui mi spedì a giocare a pallavolo».
Sofia Turlà, palleggiatrice classe ’98. Modicana doc, laurea in Scienze Motorie, 179 centimetri, sbarcata quest’anno in A1 con la maglia del Volley Bergamo 1991. Fino ai 12 anni non legava mai i capelli. E, per evitare scocciature, preferiva portarli corti. Con la frangetta. Fino a quando la sua vecchia allenatrice la costrinse ad accettare la regola, più o meno dall’under 13 in avanti: elastico obbligatorio, senza storie. «Non solo: io me ne sono sempre fregata degli abbinamenti. Ginocchiere, scarpe e, appunto, elastico dello stesso colore? No, grazie. O perlomeno, fino ad un certo punto, non era per me una cosa da prendere in considerazione».
𝐀𝐜𝐪𝐮𝐚 𝐩𝐚𝐬𝐬𝐚𝐭𝐚: 𝐥𝐚 𝐒𝐞𝐫𝐢𝐞 𝐀𝟏 𝐢𝐦𝐩𝐨𝐧𝐞 𝐮𝐧 𝐜𝐞𝐫𝐭𝐨 𝐝𝐞𝐜𝐨𝐫𝐨 𝐞𝐬𝐭𝐞𝐭𝐢𝐜𝐨
«Quando mi hanno chiamato, io che venivo dalla B1, ho pensato tra me e me: “Ma siete sicuri”? Mi sono ritrovata d’improvviso circondata da atlete che hanno fatto i Mondiali, le Olimpiadi. All’inizio ero un po’ in ansia. Mi allenavo, mi chiedevo sempre: chissà se sono contenti di me».
𝐒𝐜𝐞𝐧𝐚𝐫𝐢𝐨 𝐝𝐢 𝐩𝐫𝐢𝐦𝐢𝐬𝐬𝐢𝐦𝐨 𝐥𝐢𝐯𝐞𝐥𝐥𝐨…
«Durante le prime partite, contro Novara, Busto, dalla panchina mi guardavo attorno ed esclamavo, mentalmente, “wow”. Mi tremavano le gambe. Telecamere, foto, ogni cosa curata nei minimi particolari. Le divise, che devono essere perfette. Eh sì – ride, Sofia – anche gli abbinamenti adesso inizio a considerarli importanti. È come vivere sulla luna, ora. E quindi ti guardi indietro e dici: tutto quello che ho fatto aveva un senso».
𝐄 𝐚𝐥𝐥𝐨𝐫𝐚 𝐚𝐭𝐭𝐢𝐯𝐢𝐚𝐦𝐨𝐥𝐚, 𝐥𝐚 𝐦𝐚𝐜𝐜𝐡𝐢𝐧𝐚 𝐝𝐞𝐥 𝐭𝐞𝐦𝐩𝐨…
«Ero già competitiva al minivolley, mi impegnavo da morire. Ai tempi, con me giocava Gloria Cappello ed eravamo davvero molto legate. I miei genitori sono sempre stati molto presenti, ma in modo saggio: nessuna pressione, nessuna aspettativa, solo sano entusiasmo e valori importanti. Mio padre, che fa il vigile del fuoco, nei turni liberi mi portava in giro per la provincia a fare le partite. “Brava, ti sei divertita? Sono contento”: questo era il suo confine, questo era tutto ciò che aveva da dirmi. E io gli sono grata da morire, perché sono cresciuta in fretta. E bene…».
𝐀𝐥 𝐩𝐮𝐧𝐭𝐨 𝐝𝐚 𝐟𝐚𝐫𝐞 𝐮𝐧 𝐛𝐢𝐠𝐥𝐢𝐞𝐭𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐬𝐨𝐥𝐚 𝐚𝐧𝐝𝐚𝐭𝐚, 𝐚 𝟏𝟓 𝐚𝐧𝐧𝐢…
«Ero a casa, in quei giorni stavo facendo le selezioni per il Trofeo delle Regioni. Mi arriva un messaggio: mittente Paolo Modica, che ai tempi era il mio preparatore. Voleva farmi sapere che era stato contattato da una società di Roma: “Vorrebbero vederti”. Paura? Zero. Partì con mio padre. 2-3 giorni di prova, poi il rientro in Sicilia. E, ancora, il ritorno nella capitale, super carichi di roba, perché stavolta ero lì per restarci. I miei mi hanno salutato ed io ho risposto: “Ciaoooo”. Ero entusiasta: sarei rimasta anche solo per raccogliere i palloni. Certo, poco dopo è arrivato inesorabile il rovescio della medaglia: all’inizio è stata un po’ dura. Allenamenti intensi, un po’ di ansia, quei tragitti casa-palestra in cui i miei genitori mi chiedevano “come va?”. E io, sempre, “tutto ok, alla grande”. Però quasi ogni sera un pianto me lo facevo, onestamente. E trovavo sempre il modo, almeno una volta al mese, per tornare in Sicilia».
𝐃𝐨𝐯𝐞 𝐩𝐨𝐢, 𝐢𝐧 𝐫𝐞𝐚𝐥𝐭𝐚̀, 𝐜𝐢 𝐬𝐞𝐢 𝐭𝐨𝐫𝐧𝐚𝐭𝐚 𝐢𝐧 𝐦𝐨𝐝𝐨 𝐬𝐭𝐚𝐛𝐢𝐥𝐞. 𝐏𝐞𝐫 𝐠𝐢𝐨𝐜𝐚𝐫𝐞…
«Già, dopo le esperienze a Maglie e Bolzano. Marsala e soprattutto Modica, la mia città. Ero contenta: giocare con gente che conosco da sempre, tra la gente che ho vissuto da sempre, con i miei genitori che venivano a vedere le partite. Entravi in palestra e ti accorgevi che attorno c’erano quelle persone che vedevi da piccola, ma da una prospettiva nuova. Ti sentivi davvero a casa».
𝐔𝐧 𝐫𝐢𝐭𝐨𝐫𝐧𝐨 “𝐢𝐧 𝐩𝐚𝐭𝐫𝐢𝐚”, 𝐩𝐞𝐫 𝐒𝐨𝐟𝐢𝐚, 𝐮𝐧 𝐩𝐨’ 𝐢𝐧 𝐜𝐡𝐢𝐚𝐫𝐨𝐬𝐜𝐮𝐫𝐨…
«Dal punto di vista emotivo, sono stati anni meravigliosi. Però, avendo già vissuto esperienze lontano dalla Sicilia, vedi le cose da un punto di vista diverso. In Sicilia c’è gente che si impegna tanto, che dà l’anima, ma credo che serva qualcosa in più per raggiungere certi livelli. Credo sia un problema culturale, cioè di cultura dello sport. Vedi, la questione impianti mi pare abbastanza emblematica in tal senso. Dobbiamo cambiare, investire, rilanciare, perché abbiamo risorse grandiose. Io per riuscire nella pallavolo mi sono davvero fatta in quattro. E non accetto, onestamente, che a certi livelli giochino pochi siciliani. Mi infastidisce».
𝐀 𝐩𝐫𝐨𝐩𝐨𝐬𝐢𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐞𝐬𝐩𝐞𝐫𝐢𝐞𝐧𝐳𝐞 𝐚 𝐝𝐢𝐬𝐭𝐚𝐧𝐳𝐚: 𝐥𝐚 𝐆𝐞𝐫𝐦𝐚𝐧𝐢𝐚?
«Ero reduce da una stagione non proprio buona a Marsala e avevo richieste, l’anno successivo, che non mi convincevano. C’era l’opzione Stoccarda, dove però cercavano una palleggiatrice per la Champions. Diciamocelo: un po’ “too much”. Sono partita, alla fine. Ma l’ho gestita malissimo: ansia da prestazione e il mio inglese, poi, lasciamo perdere…. Sono finita allo Straubing (1 Volleyball Bundesliga, ndr). Ricordo la partenza. Ero a Milano, bloccata dalla paura di andare a prendere quell’aereo. Mi sono convinta in un lampo: “Ora o mai più, in caso torni in Italia”, mi dicevo. Alla fine è andata bene, ma poi è arrivato il covid…».
𝐇𝐚𝐢 𝐟𝐚𝐭𝐭𝐨 𝐩𝐚𝐫𝐭𝐞 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐫𝐚𝐩𝐩𝐫𝐞𝐬𝐞𝐧𝐭𝐚𝐭𝐢𝐯𝐚 𝐩𝐫𝐨𝐯𝐢𝐧𝐜𝐢𝐚𝐥𝐞 𝐞 𝐩𝐨𝐢 𝐫𝐞𝐠𝐢𝐨𝐧𝐚𝐥𝐞: 𝐜𝐨𝐬𝐚 𝐭𝐢 𝐩𝐨𝐫𝐭𝐢 𝐝𝐞𝐧𝐭𝐫𝐨 𝐝i 𝐪𝐮𝐞𝐠𝐥𝐢 𝐚𝐧𝐧𝐢?
«Esperienza pazzesca. Ho conosciuto persone da tutte la Sicilia, penso a Gaia Catania o a Diana Spanò, che poi sono diventate mie sorelle. Un passaggio della mia vita indimenticabile, che mi porto dentro insieme a quelle persone e a quei ricordi. Ho incrociato, in quelle occasioni, atlete che ora giocano ad altissimi livelli, ma già ai tempi era chiaro che si trattava di fenomeni, anche se avevano solo a 14 anni. E dentro di me, speravo di poter fare tanta strada anche io».
𝐀𝐧𝐜𝐡𝐞 𝐬𝐞, 𝐚𝐝 𝐮𝐧 𝐜𝐞𝐫𝐭𝐨 𝐩𝐮𝐧𝐭𝐨, 𝐪𝐮𝐞𝐥 𝐬𝐨𝐠𝐧𝐨 𝐩𝐚𝐫𝐞𝐯𝐚 𝐞𝐬𝐬𝐞𝐫𝐬𝐢 𝐢𝐧𝐟𝐫𝐚𝐧𝐭𝐨…
Volevo smettere, sì. Dopo l’esperienza in Germania sono tornata a Modica. Mi sentivo sola. Andavo in palestra, mi allenavo, ma il mio cuore aveva smesso di battere. Non sentivo emozioni, nemmeno quando vincevo. E così mi chiedevo: “Ma se devo giocare con questo spirito, perché devo continuare?” Alle mie amiche lo dicevo chiaramente: “Mi sa che è finita”.
𝐄 𝐢𝐧𝐯𝐞𝐜𝐞 𝐞𝐫𝐚 𝐬𝐨𝐥𝐨 𝐥’𝐢𝐧𝐢𝐳𝐢𝐨…
Quando mi hanno chiamato da Bergamo, ho detto: “Sofia, ma che stai facendo: vai, provaci. E poi mi è arrivata tutta la gioia del mondo addosso».
𝐂𝐨𝐬𝐚 𝐝𝐢𝐜𝐢 𝐚𝐥𝐥𝐞 𝐫𝐚𝐠𝐚𝐳𝐳𝐞 𝐜𝐡𝐞 𝐬𝐨𝐠𝐧𝐚𝐧𝐨 𝐝𝐢 𝐚𝐫𝐫𝐢𝐯𝐚𝐫𝐞 𝐝𝐨𝐯𝐞 𝐭𝐮 𝐬𝐞𝐢 𝐚𝐫𝐫𝐢𝐯𝐚𝐭𝐚?
«Quello che dico sempre anche a mio fratello: bisogna allenarsi ogni giorno a duemila e cercare di migliorarsi sempre, di superare la paura, di accettare gli errori, di imparare, di buttarsi, anche con un po’ di sana incoscienza. A 14-15 anni ti è tutto concesso. E quindi devi viverla come un divertimento. E più ti diverti, più le cose gireranno per il verso giusto».